Il nunzio apostolico a Damasco spiega a
che punto è il conflitto siriano: alla tragedia si aggiunge ora la
bomba della povertà. La situazione sanitaria è disperata. Le
occasioni perse per risolvere la crisi. Il futuro del Medio Oriente
passa dal riconoscimento dei diritti di cittadinanza per tutti i suoi
abitanti, solo così le minoranze si sentiranno a casa loro.
Città del Vaticano
(Intervista realizzata per Vaticaninsider)
Monsignor Zenari, vogliamo partire
dai numeri della guerra, ci può fare un quadro dettagliato della
crisi umanitaria?
«Le
Nazioni Unite parlano da tempo di una catastrofe umanitaria perché
le cifre sono impressionanti: la popolazione recensita poco prima del
conflitto era di 23 milioni di abitanti, di questi, più della metà,
12 milioni, ha bisogno di assistenza umanitaria, si tratta quindi una
cifra sbalorditiva. Otto milioni sono gli sfollati interni e, sempre
secondo l'Onu, ci sono 4 milioni di rifugiati nei Paesi vicini con
conseguenze pesanti. Il Libano per esempio sta scoppiando perché ha
4 milioni di abitanti e ora ospita circa 2 milioni di profughi. Si
contano inoltre un milione di feriti, 230 mila morti, ma sono molti
molti di più, questi sono quelli di cui hanno riferito le agenzie
umanitarie. Non sono compresi, per esempio, i 20mila scomparsi nelle
carceri degli uni o degli altri. Noi abbiamo i casi di sei
ecclesiastici: due vescovi e quattro preti, fra i quali padre Paolo
Dall'Oglio, di cui ricorreranno i due anni dalla scomparsa fra un
mese; ancora ci sono due preti rapiti due anni e mezzo fa e l'ultimo
dei rapiti è un monaco della comunità di Mar Musa, la stessa di
padre Paolo, un mese e mezzo fa circa. Di loro non si sa niente, ma
questi appunto vanno compresi nel conteggio complessivo degli
scomparsi, presi dagli uni o dagli altri per vari motivi».
Alla crisi umanitaria si somma una
crisi sociale sempre più drammatica...
«Secondo
le statistiche delle Nazioni Unite il 58% della popolazione è senza
lavoro, senza un impiego; 4 siriani su 5 vivono sotto la soglia della
povertà. Il 60% degli ospedali sono distrutti o inagibili, circa
35mila medici sono andati via dalla Siria, mi accorgo anche io a
Damasco di questo, se uno ha mal di pancia rischia la vita. A questo
proposito vorrei sottolineare che sono più quelli morti per mancanza
di cure, di medicine - si dice più di 300mila vittime - che non
quelli morti sotto le bombe. Quindi più morti come conseguenza per
l'assenza di ospedali e di cure, in particolare anziani e bambini.
Oltre alle armi c'è quindi un tipo di bomba che sta colpendo milioni
di persone: è la bomba della povertà, chi non è stato raggiunto
dalle schegge delle esplosioni, è stato raggiunto dalla bomba della
povertà. Mancanza di lavoro, prezzi che salgono alle stelle, un
quadro allarmante».
Guardando la crisi dall'esterno
sembra quasi che la comunità internazionale sia ormai incapace di
agire, che il conflitto si prolunghi senza sosta...
«Se
vuole una mia percezione, io sono lì da più di sei anni, quindi ho
vissuto questo conflitto fin dal primo giorno, e non direi che è un
conflitto prolungato, ma un conflitto che ha avuto dei salti di
qualità, e stento a riconoscerlo guardando ai primi tempi del suo
apparire. Ha fatto dei salti di qualità enormi. All'inizio sembrava,
durante il primo anno, un conflitto civile tra siriani, e si diceva
che bisognava arrivare a un compromesso; direi che siamo passati dal
vento della primavera araba che spirava al principio, a un uragano,
un ciclone che travolge tutto. Ci sono stati vari salti di qualità,
l'ultimo è stato la comparsa del Califfato islamico nel giugno di un
anno fa. Tra tante dichiarazioni che sono state fatte mi è rimasta
impressa quella pronunciata qualche mese fa del precedente inviato
speciale delle Nazioni Unite e della Lega araba, Lakhdar Brahimi, che
ha detto candidamente: “ci siamo sbagliati tutti, sia in Siria come
fuori”. E credo che abbia molta ragione a dire questo, ci si è
sbagliati tutti nel guardare a questo conflitto dentro e anche fuori
dalla Siria».
Ci sono stati momenti in cui
sembrava possibile una soluzione?
«Devo
dire che ci sono stati due passaggi che lasciavano sperare: il primo
quando ci fu l'accordo sullo smantellamento dell'arsenale chimico, il
governo di Damasco aveva sempre negato di possederne uno, ma dalla
sera alla mattina si è dichiarato disposto a trattare su questo
punto. Si è trattato di una cosa eccezionale, nessuno pensava che si
arrivasse a questo, pensiamo che quella era l'unica arma deterrente
nelle mani del governo. Lì è stato determinate l'accordo fra le
due superpotenze, Usa e Russia (poi c'è stata l'iniziativa del
Papa), che hanno avuto la volontà di intervenire. Una cosa che
successivamente non si è più verificata. Il ritorno di un clima di
guerra fredda ha poi impedito che si procedesse su questa strada, ha
bloccato tutto, la crisi Ucraina non ha aiutato».
La seconda possibile svolta quando è
stata?
«Poi
c'è stata un'altra occasione importante: il 30 giugno 2012, con la
famosa dichiarazione di Ginevra, anche lì si era raggiunto un
accordo molto importante. Tutte le parti in causa, dalla Siria ai
Paesi arabi coinvolti, alla Russia agli Stati Uniti, avevano trovato
quella formula del governo di transizione con pieni poteri. Quella è
stata un'occasione mancata. Si era raggiunto un accordo, mi ricordo
che anche il governo siriano aveva accettato la formula. Dopo di che
il diavolo si annida nei dettagli, bisognava stabilire se tale
governo provvisorio doveva essere guidato dal presidente Assad o meno
e via dicendo, le parti si sono irrigidite e c'è stato un
fallimento. Inoltre, per quello che posso vedere io da Damasco, non è
più un conflitto siriano, oltre all'Iraq si estende a tutta la
regione, prende lo Yemen, tocca in un certo modo l'Egitto, la Libia.
E' molto più vasto della sola Siria».
La crisi della regione ritiene che
possa lasciare divisioni insanabili fra le due componenti del mondo
musulmano, sciiti e sunniti, o questa è una visione troppo
semplicistica?
«Penso
che questo mondo, parliamo del Medio Oriente che va dall'Iran ai
paesi arabi, sia arrivato a un crocevia e che debba risolvere alcuni
problemi e contraddizioni. In genere in quest'area molte repubbliche
sono teocratiche, cioè fondate in relazione a interpretazioni della
legge divina, la sharia e via dicendo. Devo dire che l'unica che
faceva un po' eccezione insieme al Libano e ultimamente l'Iraq, era
la Siria, che aveva una certa qual tendenza laica. Se resta questo
rapporto stretto tra religione e Stato le minoranze non saranno mai a
casa loro, chi non appartiene alla religione della maggioranza si
sentirà e sarà sempre un cittadino di seconda classe. Credo che qui
vada fatto uno sforzo per arrivare a uno stato di diritto, al
concetto di cittadinanza, questo è un nodo da sciogliere».
E' quello che hanno detto negli
ultimi mesi il cardinale Parolin e monsignor Gallagher...
«Sì,
e già nel sinodo sul Medio Oriente del 2010 i vescovi lo
affermavano: bisogna arrivare a un concetto di cittadinanza nel quale
tutti si trovano alla pari, con gli stessi diritti. C'è poi il
problema dell'interpretazione del Corano, qui ci sono le correnti
jiahdiste che dicono una cosa, ma dovranno mettersi d'accordo su una
chiave di lettura. E poi ci sono altre questioni: fondamentali sono i
diritti umani, lo stesso rapporto fra queste due famiglie musulmane,
sciiti e sunniti, è un altro nodo da sciogliere; in generale questi
Paesi dovranno prendere delle decisioni, non sarà facile perché ci
sono delle resistenze forti, violente, però prima o poi dovranno
cadere alcuni muri».
Si parla spesso di persecuzioni dei
cristiani nel conflitto in corso...
«Vorrei
puntualizzare la questione delle persecuzioni. Direi che in Siria in
modo particolare non si possa parlare di persecuzioni dei cristiani
da parte di altri siriani anche all'interno del conflitto, perché la
popolazione sapeva qual era il ruolo dei cristiani, le opere di
assistenza, le scuole, poi c'erano dei rapporti all'interno delle
comunità e via dicendo. In generale ci possono essere state misure
restrittive ma non parlerei di persecuzioni. Atti violenti si sono
verificati invece per mano di questi combattenti che vengono da
fuori, dalla Cecenia o dall'Afghanistan, ma farei attenzione appunto
a non generalizzare».
In questa prospettiva allora, i
cristiani che ruolo possono avere?
«Quando
poco più di sei anni fa presentai le mie credenziali in Siria, al
presidente, mi resi conto che c'era una grande attenzione verso la
presenza delle comunità cristiane nel Paese, che il tema era
sentito, e non solo in Siria; per esempio anche il re di Giordania
cerca di aiutare i cristiani a rimanere. E però per ottenere questo
bisogna che i cristiani si sentano a casa loro. Se volete che i
cristiani continuino a restare lì rappresentando una propria
ricchezza culturale, è necessario che su tutti i piani siano
trattati alla pari, che non si sentano cittadini di seconda classe
sotto certi aspetti. E anche bisogna che i cristiani in Medio Oriente
sentano che essere nati lì è una missione una vocazione, e quindi
vanno aiutati economicamente a restare, ma questo non è sufficiente
come diceva anche padre Dall'Oglio in una delle sue ultime
conferenze. Bisogna dar loro anche delle motivazioni spirituali, non
solo materiali ed economiche e credo che abbia ragione. Quindi in
primo luogo dovranno sentirsi a tutti gli effetti cittadini nelle
costituzioni di questi Paesi, ma poi vanno date anche motivazioni
spirituali. Padre Dall'Oglio, diceva se non si capisce questa
vocazione e se non si lavora per un dialogo con i musulmani, c'è il
rischio che i cristiani vadano via, partano. Certo finché i
cristiani si sentono un gradino inferiore nella società e
nell'ordine giuridico questo non li aiuta a rimanere. Quindi ci sono
vari fronti: quello giuridico, costituzionale, dello stato di
diritto, poi gli aiuti economici, e poi un sostegno spirituale che li
aiuti a vivere la loro tradizione».
Mons. Zenari, lei è anche un
testimone d'eccezione, come si vive a Damasco in questi mesi? Che
succede nella vita quotidiana?
«A
Damasco ci sono delle cose opposte: nel quartiere dove si trova la
nunziature, e ci sono anche delle ambasciate che sono chiuse, c'è
pure l'università vicino, lei può vedere questi bar o caffè che
sono pieni. Poi certo si vedono i posti di blocco. Ma assistiamo a
contraddizioni enormi perché poi a cinque chilometri c'è il campo
di Yarmuk, in realtà un quartiere palestinese, e lì tutti abbiamo
presente quando più di un anno fa le Nazioni Unite sono riusciti a
distribuire questi pacchi di viveri, ricordiamo quella foto con una
fiumana di persone; tanti poi sono partiti dal campo, ma molti
continuano ad essere in quella stessa situazione. Non c'è stato
alcun miglioramento, vivono accerchiati, fanno ancora la fame, non
entrano medicine, adesso le cose sono ulteriormente peggiorate quando
due tre mesi fa è arrivato l'Isis. E poi la periferia, dove si
sentono spesso gli aerei alzarsi in volo, c'è questo quartiere
Jobar, dove sono asserragliati i ribelli, e lì continuano i
combattimenti. Poi c'è il problema di Aleppo, dove mancano spesso
acqua e elettricità, cadono bombe su Aleppo est e colpi di mortaio
su Aleppo ovest».
In che modo la Chiesa sta provando
ad aiutare la popolazione colpita dalla guerra?
«Come
chiese abbiamo una rete che si sta potenziando e sviluppando, anche
con l'aiuto del Pontificio consiglio Cor Unum, poi con la Caritas
internationalis, che mette in moto quella locale. Cerchiamo di
coordinare l'afflusso dei fondi, anche fondi governativi che si
fidano delle varie caritas nazionali, e si cerca di mettere su dei
progetti, per la scuola, la sanità, la scuola. Sul territorio fanno
molta fatica le ong a venire in Siria, il governo teme che gli aiuti
vadano ai ribelli, è un Paese in guerra. Ma devo dire che invece la
Chiesa gode di un'ampia libertà d'azione anche perché sanno che
aiutiamo la popolazione. Il papa, infine, è informato da me, dai
vari vescovi, da Cor Unum, dalla Congregazione per le chiese
orientali, è dunque molto informato e molto sensibile».
C'è qualche aspetto che lascia
sperare in un quadro tanto drammatico?
«Io
li chiamo fiori del deserto, o rose di Damasco, parlo di quanti si
sono sacrificati per aiutare gli altri. Ci sono molte storie in
questo senso. Dico soltanto che 50 rappresentanti e volontari in
maggioranza della Mezzaluna rossa e anche della Croce rossa, hanno
perso la vita in Siria. Ecco, questi sacrifici, ci dicono che anche
nel deserto di una guerra, ci sono esempi, dei fiori del deserto, che
ci indicano un'altra strada».
Francesco Peloso
Nessun commento:
Posta un commento